Le origini del Buddismo Zen

Quando, a partire dal primo secolo il buddismo inizio a riversarsi in Cina, lo fece attraverso un flusso costante di viaggiatori che accompagnavano le carovane lungo la Via Della Seta. Con essi arrivarono i testi in pali, in sanscrito e in kotanese che rappresentavano tutte le scuole o tendenze che si erano sviluppate in India, nell'arco di circa seicento anni. Una mole di notizie, di indicazioni, di pratiche cosi vasta e varia da risultare, nell'immediato, impossibile da maneggiare.
Occorsero più di cinque secoli per importare, tradurre e ordinare tutto questo materiale. Nel contempo anche le scuole di pensiero buddista già presenti in India cominciarono a svilupparsi in Cina come entità autonome ed insieme a queste nacquero altre tendenze, nuove, diverse, di origine autoctona, che non avevano il loro corrispettivo indiano.
Questa esorbitante abbondanza di testi e di scuole fece si che per un cittadino cinese fosse estremamente complesso avvicinarsi al buddismo o anche solo scegliere "quale buddismo". È proprio all'interno di questa situazione che nasce il Chan, oggi più conosciuto come Zen.
Sin dalle origini, il buddismo è un tipo di religiosità fondata sulla prassi. Tutte le indicazioni, gli insegnamenti che ci giungono dal Fondatore hanno alle spalle la raccomandazione:
Non ti fidare, non ci credere solo perché l'ho detto io, metti in pratica e verifica sulla base della tua esperienza
Un altro modo di dire la stessa cosa la troviamo ripetuta varie volte negli insegnamenti più antichi:
Prendete rifugio in voi stessi e non in altro
Quando in Cina, tra il V ed il VI secolo, il giusto modo di mettere in pratica l'insegnamento del Buddha fu chiaramente compreso e applicato, alcuni si resero conto che l'enorme mole di parole in svariate lingue accumulatesi nei secoli precedenti, non era il buddismo autentico, ma il famoso dito che indica la luna, e questo indicatore, pur prezioso, rischiava di frapporsi, oscurando il vero obiettivo perché concentrava tutta l'attenzione sul dito. Fu così che, probabilmente verso la meta del VI secolo, si consolido una corrente all'interno della quale non vi era alcun testo di riferimento particolare, e che basava la sua continuità soprattutto sul rapporto da persona a persona: la capacità di edificare Buddha con la propria vita e la continuità in questo percorso erano edificate e verificate in un processo che avveniva, e avviene, non sulla base dello studio dei testi, anche se lo studio rimane, ma nella condivisione della vita con coloro che hanno ricevuto la medesima formazione dalla generazione precedente.
Per quanto possa apparire strano, non solo la cosa funziono ma sopravvisse nei secoli sino ad arrivare ai giorni nostri.
Storicamente, occorre tenere conto che questa operazione di "ripulitura" ovvero di passaggio radicale dal dito alla luna, per quanto realizzata in Cina dai cinesi, non fu una loro invenzione. Infatti che, nel buddismo antico, esiste un termine con il quale i buddisti definivano se stessi. Questo termine è patisotagāmin. Comunemente e tradotto con
Che va contro corrente
facilmente comprensibile se visto dal punto di vista etimologico: pati ha la stessa origine etimologica del latino pretium, inteso come costo, riscatto, ovvero ciò che si da per contro, e qui sta, appunto, per "contro" oppure "in opposizione a". Sota significa "flusso, corrente" ma anche "lo scorrere, il fluire".
Agāmin che ha la stessa radice di gamete, significa "che torna", "si avvicina", "si unisce".
Tutto insieme significa quindi:"che va contro corrente", sia nel senso che va in direzione opposta al fluire della vita nei suoi contenuti mondani, sia nel senso di "non aderisce ad alcuna dottrina o visuale particolare".
Vediamo questa stessa concezione in un testo antico, l'Alagaddūpama sutta, ovvero Il discorso dell'esempio del serpente d'acqua. In questo sutta o discorso, l'insegnamento del Buddha viene paragonato ad una zattera costruita per raggiungere l'altra sponda, e vi si dice che, una volta che quella sponda e raggiunta, invece di caricarsi la zattera sulle spalle portandola con noi, la zattera va abbandonata. In modo più esplicito, questo significa che quando il senso del dhamma, o dharma, e realizzato nella prassi, questo comprende anche lasciar andare il dhamma, l'insegnamento.
A partire dalla fine del VI secolo, nella letteratura cinese iniziò una sorta di caratterizzazione dell'epopea del Chan ricostruendo a posteriori episodi e storie in modo da formare l'apparenza o l'involucro celebrativo di vicende che, invece, quando le cose si svolsero seriamente, accaddero in modo silenzioso e per nulla appariscente. La costruzione letteraria di queste leggende estremamente dense di senso, a ritroso giunge lontanissimo, arriva infatti a modificare o integrare la biografia del Buddha arricchendola di episodi che lo rappresentano in atteggiamenti tali, da farne il vero iniziatore della scuola Chan, e forma un intrico molto complesso che solo recentemente e stato dipanato dagli storici. Notiamo comunque che questo tipo di falsificazioni storiche, estremamente comune in tutta la letteratura religiosa cinese, è uno stravolgimento della verità solo in termini convenzionali. Il punto importante non è se quel mattino di 2500 anni fa, il Buddha fosse veramente sul Picco dell'Avvoltoio e dopo un lungo silenzio abbia solamente mostrato un fiore alla folla scambiando uno sguardo d'intesa con Mahākashyapa.
In un modo che presenta evidenti analogie con le parabole, ciò che conta è il significato convogliato da quei racconti, ossia che cosa il racconto medesimo, nella sua finzione letteraria, voglia e riesca a trasmettere.
In quest'opera di edificazione fantastica i cinesi sono stati formidabili: hanno costruito a posteriori, anche millecinquecento anni dopo i presunti fatti, una storia dello Zen con una trasmissione ininterrotta a partire dal Buddha perfettamente confacente a quella tradizione apofatica. Un storia certamente più interessante e forse anche più significativa di quanto lo siano stati i fatti medesimi, che vivendo di una riservata e serena quotidianità non costituivano nulla di speciale, ossia nulla che valesse la pena raccontare.
Lo Zen dunque non ha una sua dottrina specifica, non ha un canone scritturale all'interno del quale si possa trovarne una definizione, e attraverso il quale si possano offrire delle caratteristiche o una storia del pensiero con le sue evoluzioni nei secoli. Questo significa che dello Zen non è possibile parlare, poiché ogni discorso strutturato a quel proposito e arbitrario e quindi suscettibile di censura.
Tratto da una conferenza di Mauricio Yūshin Marassi